
L’avvocato ha il dovere giuridico e deontologico di dissuasione e di astenersi dalle cause perse e infondate, salvo che vi sia un consapevole consenso del cliente; diversamente risarcisce il cliente. Addio cause perse in partenza: secondo la Cassazione si considera inadempiente l’avvocato che promuove una causa del tutto priva di fondamento e di possibilità di successo. La sentenza è stata pubblicata ieri e promette un severo giro di vite nei confronti dei legali che, pur avendo informato il cliente della temerarietà dell’azione, contravvengono al divieto di utilizzare la giustizia per fini pretestuosi e non, invece, per il suo effettivo scopo che è quello della tutela dei diritti. La Corte ricorda innanzitutto che esiste un obbligo di informazione per l’avvocato, che gli impone di non consigliare, ai propri clienti, azioni inutilmente gravose e di informarli sulle caratteristiche della causa nonché sulle possibilità di soluzioni alternative (ad esempio, la possibilità di intraprendere la mediazione). Non solo: al dovere di informazione, si aggiunge anche un dovere di dissuasione vero e proprio . Il professionista deve, in altri termini, mettere da parte il proprio interesse economico all’avvio del giudizio per privilegiare invece quello del cliente e, in definitiva, dell’intero sistema “giustizia” della nazione, che vieta strumentalizzazioni delle aule giudiziarie. Anche a voler ammettere – si legge in sentenza – che un avvocato possa patrocinare una “causa persa” a fronte di una “irremovibile sollecitazione del cliente”, dovrebbe poi doverne fornire prova in un eventuale giudizio di responsabilità professionale, intentatogli dal cliente stesso. In altre parole questo significa che il legale, prima di intraprendere giudizi pretestuosi, che potrebbero portare a un sicuro rigetto della domanda, farà bene a farsi rilasciare una dichiarazione scritta dal proprio assistito con cui questi ammette di essere stato informato dei rischi che il giudizio comporta e sulle possibilità di riuscita. Solo il classico “foglio di carta”, insomma, tutela l’avvocato da un sicuro giudizio di responsabilità professionale. La Cassazione sembra aprire la possibilità anche a prove di carattere orale, come la testimonianza, ma bisognerebbe dimostrare che – ad esempio – un collaboratore di studio o un altro terzo soggetto era presente alla discussione tra il professionista e il cliente e che questi fosse stato messo in allerta dei rischi, una prova non sempre facile da raggiungere. - See more at: http://www.infortunisticaconsulting.com